Massimo Volume – Lungo i Bordi (Mescal, 1995)Giunti al primo giro di boa, e dopo una lunga ma doverosa pausa, possiamo anche chiederci cosa accadesse sul suolo italico durante il dominio dell’alt-rock statunitense, di cui a lungo s’è parlato. Poco e niente, o meglio nulla che fosse qualcosa di realmente sperimentale. Il tricolore sonoro degli anni ’90 spesso è stato una macchietta derivativa, abile solo a mettere suffissi e prefissi qua e là. Se volessimo cercare delle eccezioni, come lo furono le migliori opere di De André o la discografia anni ’70 della PFM, allora ben potremmo affermare che i “Massimo Volume” siano stati tra i pochi gruppi compatrioti a saper creare un “suono”.
Emidio Clementi non ha mai nascosto quanto fosse fan dei Fugazi e degli Slint. Fece allora sua quella potenza musicale sublimandola in potenza narrativa, tra umori naif e schizofrenia, tra “cicche macchiate di rossetto” e uragani (“Il Primo Dio”). Si erge di fronte all’ascoltatore un teatro del dramma, corroso dalle abrasioni fugaziane e bruciato dall’alchimia slintiana. I brani di “Lungo i Bordi” sono omaggi a Rimbaud, di una provincia emiliana smarrita, sospesa, tanto da far paura (“La Notte dell’11 ottobre”). La chitarra di Sommacal esplode seguendo la connessione delle parole, o meglio s’innesta in esse, quasi fosse anche lei parte del paroliere onirico in scena (“Fuoco Fatuo”). È proprio il suo fraseggio, a volte jazz (unito all’irripetibile batteria di Vittoria Burattini), a volte da manuale post-rock, a rendere questi quadri immaginifici e sorprendenti. Non mancano frammenti d’una quotidianità mai del tutto normale (“Pizza Express”), dove anzi la pazzia si fa routine. Il mix di Kaba ‘Frontera’ Cavazzuti (“Modena City Ramblers”) riesce persino a ricalibrare i suoni in gioco: allunga e sporca le code strumentali in un torbido noise liquido (“Meglio Di Uno Specchio”).
È la miglior opera della band. Matura al punto giusto, tanto da permettere a Clementi di non urlare. Non ce n’è bisogno. Basta un’idea, un punto di vista capace di mettere a nudo le nostre fragilità, ed ecco che le note arrivano a colpirci, durissime.
Air - Moon Safari (Source, 1998)In Francia le cose andavano meglio. La rivoluzione indie era stata accolta in pieno. Ma non bisogna fraintendere.
La caduta del muro di Berlino giovò all’intera Europa. La “Love Parade” (storico festival di musica dance elettronica), che proprio qualche mese prima del novembre 1989 si tenne a Berlino, fu uno dei tanti indizi del mutamento sociale, economico e musicale che aveva ormai gettato radici profonde e lontane. In questo scenario di vecchie guerre sepolte e altre in procinto di esplodere, s’affacciò il cyber mondo, rimpiazzo di quello vero, fallito, talmente marcio che ne venne l’esigenza di bruciarlo (Burning Man, 1990). E mentre a Baker Beach, in San Francisco, si compiva il rito incendiario, i generi musicali s’andavano a disperdersi, a separarsi. È singolare: mentre il capitalismo statunitense cercava di riunificare tutto sotto un’unica ala, la musica procedeva invece verso tutt’altra direzione. Ad oggi, in questa rubrica, quanti generi e sottogeneri abbiamo citato? Innumerevoli. La diaspora cominciò così in quegli anni: hip-hop e country entrarono ad esempio per la prima volta nelle classifiche internazionali.
Che Parigi sia stata la capitale culturale d’Europa per secoli è risaputo. Ma forse poco sappiamo di quanto e come sia stata l’alcova della musica popolare. I cabaret parigini del XX secolo ebbero il pregio di far coesistere l’avanguardia con la canzone satirica, i balletti irriverenti con la profondità intellettuale di poeti e pittori. Da qui la new wave. E ce n’è voluto. La “nuova ondata” altro non è che il sottoprodotto del Cabaret Voltaire fondato a Zurigo da Hugo Ball nel 1916. Benjamin Lew, Front 242, Klinik, Vomito Negro, sono i discendenti della “Belle Epoque” e ce lo dimostrarono a colpi di ritmi techno e sinfonie ambient.
Arriviamo a noi. Nicolas Godin e Jean-Benoit Dunckel a vederli rappresentano il perfetto binomio ying-yang del Taoismo: da una parte il lato in ombra della collina (yin), dall’altro il lato soleggiato (yang). All’ombra i due suonano melodie jazzate, rilassate, sensuali, mentre sotto un sole retro-futuristico elaborano riff di piano blues, per nulla (difficile a dirsi) artificiale. È una dance music spinta da tastiere Korg, cromaticamente variate dal Moog e dai vocoders. Il tessuto musicale è cinematografico (“Talisman”), ringhiante quando deve (“Sexy Boy”), ludico stile bubblegum (“Kelly Watch The Stars”), altresì parodistico (“Ce Matin La”). Non manca il divisimo soul-jazz (“All I Need”), perfetta summa easy listening. “Moon Safari” è un album in grado di riempire una stanza di valium, lasciando a terra zuccherini qua e là per non farti trovare mai l’uscita.
DR da dimenticare per la reissue Virgin rilasciata nel 2008 in occasione del decimo anniversario.